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Guido Costa. Intervista di Claudia Santeroni

 

“Cara Claudia,
ecco una mia foto :
David Armstrong, Arles, 2008″


Quando eri bambino, cosa sognavi di fare ‘da grande’?

Volevo fare il chimico. ‘Da grande’ è sempre stata un’idea un po’ astratta, nel senso che io ho sempre fatto quello che al momento reputavo più interessante, non avrei neanche mai immaginato di occuparmi di arte.

Quale è stato il tuo percorso di studi?

Ho studiato Filosofia, e l’ho anche insegnata per nove anni nei licei. Questo però è successo quando avevo più di 30 anni: quando mi sono scocciato di fare il professore ho iniziato a fare altro, perché avevo consumato quella storia.

Quando inizi a coltivare l’idea di aprire la galleria?

L’apertura della galleria è arrivata molto dopo, nel senso che la galleria come Guido Costa l’ho aperta alla fine degli anni ’90, dopo un iter abbastanza complicato, prima come curatore libero, poi come direttore di una galleria di Napoli, e poi dopo come gallerista io in prima persona. Oggi i galleristi iniziano prestissimo, ci sono colleghi che hanno 23 anni, mentre io sono arrivato a quell’idea di vita con grande ritardo, una seconda vita quasi.

Tra le varie mostre che hai organizzato, quale è stata più complicata da realizzare, o quella in cui hai incontrato il più grosso problema organizzativo da risolvere?

Probabilmente quella più complicata che ho realizzato è stata la prima mostra di Paul Fryer che ho fatto, nel 2007. Era un’opera estremamente grossa, muscolosa, con dei problemi di ordine tecnico imprevisti, che ho dovuto risolvere là per là … il risultato è stato magnifico, ma è stata una mostra che mi ha fatto sudare forze e denaro in maniera rilevante.

Cosa ne pensi del mondo dell’Arte Contemporanea italiana?

Il panorama artistico italiano è un panorama, a mio giudizio, interessante, nel senso che di artisti giovani ce ne sono una quantità enorme. Solo 15 anni fa esistevano delle vocazioni, ma una scarsa consapevolezza, mentre trovo che adesso ci sia un enorme consapevolezza sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista anche strumentale, che però purtroppo non serve quasi a nulla, nel senso che si sviluppa in un momento in cui si assiste ad una crisi generale dell’arte contemporanea. La crisi che sta colpendo il settore è una crisi devastante, per tanti motivi, soprattutto qui in Italia, non soltanto però per ragioni di ordine economico, ma perché non esiste una competenza, un’attenzione o una reale capacità da parte di chi ci governa nel far tesoro di questo bagaglio creativo. La cosa curiosa è che un aumento della capacità e della professionalità ha corrisposto ad un abbassamento della richiesta e della possibilità di fare di tutto ciò un territorio fertile, percorribile, e questo ha a che fare con le politiche culturali ed i metodi con i quali si protegge la creatività giovanile, i metodi con i quali si protegge la creatività in arte in generale, e soprattutto con i confini fiscali in cui tutto ciò avviene e si sviluppa. Da un lato siamo in un momento interessante, dall’altro nel completo disastro.

In questo panorama fra il disastroso ed il confortante, quale dovrebbe essere il compito dell’arte?

Le persone a volte sono scioccate dalle opere d’arte perché si è fatto in modo di appiattire l’idea dell’arte sullo shock, e questo per un’infinita serie di ragioni, ad esempio la disattenzione generale di chi si accosta al mondo dell’arte, poco tempo, poca disponibilità ad approfondire, poca capacità nell’approfondire: questo determina che quello che rimane a galla è solo quello che colpisce velocemente ed in maniera forte, tutto il resto rimane non letto e non conosciuto. In secondo luogo anche per la circuitazione che ha iniziato ad avere negli ultimi anni l’opera d’arte, cioè per lo più fieristico o in grandi contenitori dove si butta dentro di tutto. All’interno di questa dimensione onnivora, è ovvio che risalti soltanto ciò che colpisce, ed il resto rimanga in secondo piano, perché si è abituata, in maniera proprio deliberata, l’attenzione alle punte scioccanti. Tutto il resto, che è invece il grande patrimonio dell’arte, è andato disperso, perché la gente anziché andare nelle gallerie preferisce andare alle fiere, anziché andare alle mostre preferisce andare alle tremila ammucchiate ‘biennal qualche cosa’, e così si è creato un ‘gusto’. In più, i giornali di tutti i generi, da quelli specializzati a quelli meno specializzati, nel momento in cui cercano la notizia non la cercano nei luoghi in cui c’è una profondità, ma in quelli in cui emerge uno shock. L’insieme di tutto questi aspetti ha fatto sì che il tutto si sia appiattito su un arte da avanspettacolo, da baraccone.

Cosa ne pensi della realtà di questi apparati fieristici?

Io partecipo perché è necessario farlo, e perché  le fiere sono diventate purtroppo l’unica maniera in cui riesci a farti conoscere, anche se in maniera superficiale ed inadatta al lavoro. Lo faccio per una questione di posizionamento e perché in questo momento noi gallerie siamo talmente ricattate da questo meccanismo del posizionamento che se tu non lo fai, sei fuori dai giochi subito.

Ha senso che ci siano tre fiere in Italia?

No, avrebbe senso ce ne fosse una sola. Le fiere sono dei luoghi di economia, e sono delle buone fiere per chi le fa e per chi le va a vedere se esiste un reale circuito o movimento economico che le sostiene: se non c’è quello, sono inutili, sono vetrine senza anima. In Italia, sarebbe tanto se riuscissimo a tenerne in piedi una. Secondo me il modello fiera ha fatto il suo tempo, ed ha portato più danni da un punto di vista culturale, che altro.

In base a quale criterio selezioni gli artisti della tua galleria?

Scelgo quelli che mi piacciono. Avrei potuto evitarmi tanti problemi selezionando artisti di moda sapendo di poterli rivendere a qualche collezionista, di quelli che comperano sulla base di cosa pubblicano le riviste, invece ho sempre scelto quelli che reputo interessanti, e che sono anche delle persone con cui mi trovo: è difficile per me lavorare con un artista che, anche se bravissimo, è uno stronzo.

Ha senso investire in questo momento nei giovani?

Questo è il solito problema, che nasce soprattutto quando le gallerie fanno un salto da una dimensione che potremmo chiamare ‘piccolo familiare’ ad una dimensione iperprofessionale ed internazionale: quando hai fatto quel salto, non ti puoi più permettere di investire su un giovane, perché un giovane vuol dire spendere soldi e non guadagnare quasi mai niente.

L’intuito del grande collezionista o gallerista, non dovrebbe essere quello di cogliere nell’artista emergente un potenziale futuro successo?

Certo, ma perché noi ci facciamo tutte queste pippe riguardo all’artista emergente che poi diventerà famoso, ma fondamentalmente io sono dell’idea che un artista, per essere interessante, debba essere un artista maturo, e non un esordiente.

Cosa ne pensi del potere che un gallerista può avere sul destino di un artista?

Paradossalmente, il discorso deve essere ribaltato: sono gli artisti che fanno il potere del gallerista, non il gallerista che fa l’importanza dell’artista. Io una tantum posso avere il potere di realizzare il sogno creativo di qualcuno, e magari di venderlo nelle collezioni giuste, ma di lì in poi è tutto affare dell’artista, anche perche è lui che crea le opere, io posso cercare di contestualizzarle nella maniera migliore, ma non sono io che le invento.

Quale è l’artista di cui sei stato più orgoglioso?

Nan Goldin, è tutt’ora il pilastro della galleria.

Francesco Bonami ha scritto ‘Lo potevo fare anche io’, per spiegare al grande pubblico perché le opere d’arte contemporanea siano ‘davvero arte’.

Io sono d’accordo: tutti, se avessero condiviso un certo tipo di storia, sia ideale, sia pratica, sarebbero potuti arrivare alla realizzazione di certe opere, che non prevedano ovviamente il virtuosismo del mezzo. Puoi arrivare tranquillamente ad immaginare di realizzare un Cattelan, un Damian Hirst od un Jeff Koons, ma non di certo di un Vermeer, ad esempio. Nel momento in cui la tecnica è diventata una variabile non necessaria e tutto è scivolato in una dimensione progettuale e concettuale, è ovvio che si possa pensare di realizzare queste opere, perché tutti siamo dotati di una materia grigia sufficientemente articolata e di una curiosità e creatività abbastanza ampia per poter realizzare un’opera. Io penso che tutti, nessuno escluso, abbiano avuto la possibilità di realizzare un’opera d’arte importante.

L’acquisto migliore che hai fatto?

Io compro un sacco di Arte. Ho fatto tanti acquisti buoni, ma nessuno è stato quello che mi ha cambiato la vita, perché io compro sempre cose che mi piacciono, e non necessariamente corrispondono al nome giusto che deve essere comperato perché diventi moneta sonante nel futuro. Inoltre, io compero con un budget estremamente limitato, e questo fa sì che le possibilità che queste stesse opere aumentino spropositatamente il loro valore nel tempo, è scarso. Quando Damien Hirst costava mille pound, e io lo conoscevo, non avevo mille pound per comprarlo!

Dimmi una galleria italiana che ti piace.

Mi piace molto Zero, perché è una galleria che rischia molto, seria.

Una cosa straordinaria che ti è successa.

Ci sono 2 o 3 mostre di cui sono molto orgoglioso, ad esempio la mostra che feci a Napoli con Damian Hirst nel ’96, la prima ed unica mostra italiana.

Claudia Santeroni

 

http://www.guidocostaprojects.com/

Immagine © Guido Costa

4 commenti »

  1. Bellissima intervista! domande e risposte pragmatiche ed intelligenti..

    Comment di matteo il 7 December 2012 alle 14:04

  2. Bella ntervista al migliore gallerista italiano!

    Comment di marco citron il 10 December 2012 alle 11:28

  3. Bella intervista, domande precise ed allo stesso tempo molto interessanti, ad un gallerista molto importante !

    Comment di Fabio Casati il 10 December 2012 alle 11:36

  4. Molto interessante, dice cose che difficilmente vengono dette

    Comment di Anna il 14 December 2012 alle 22:01

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