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Danilo Montanari. Intervista di Claudia Santeroni

 

Ciao Claudia,
la fotografia ritrae Francesca sul molo di Ravenna.

 

Questo ciclo interviste è mirato ad indagare l’approccio con cui i vari operatori del mondo dell’arte, dal curatore, al gallerista, all’artista, si approcciano al variegato panorama dell’arte contemporanea; non quanto è già noto sul loro conto. Sono le ‘interviste dei sogni’, ma iniziano sempre con una storia vera, quella della formazione dell’intervistato.

La mia formazione rispetto all’arte è del tutto casuale, e se vuoi inesistente, nel senso che da ragazzo ho fatto tutt’altri studi, Scienze Politiche. Per nove anni ho fatto il bagnino e, al termine di questa mia carriera, per una stagione ho preso in gestione dei campi da tennis. Allora c’era il boom del tennis, per cui lavorai veramente moltissimo, letteralmente venti  ore al giorno: finivo alle due di notte ed iniziavo alle sei del mattino. Dopo sei mesi di questa vita mi sono ritrovato senza nessuno attorno, né amici, né fidanzata, ma con un mucchio di soldi per un ragazzo di quell’età. Alcuni vecchi amici mi proposero di entrare in una cooperativa che si occupava di comunicazione, grafica e pubblicità, con l’intento di lavorare nell’editoria. Io mi ero occupato di tutt’altro nella vita, avevo un’esperienza umanistica, ma la cosa mi interessava, anche se non avevo nessun tipo di abilità o di conoscenze. Possedevo però il denaro che mi consentiva di stare un paio di anni senza guadagnare, e provare a capire come si faceva il lavoro dell’editore. Successivamente, per cause fortuite e fortunate, mi occupai con altri compagni di viaggio per conto della Pinacoteca di Ravenna, che all’epoca  (si parla della fine degli anni ’70 fino a metà degli ’80) era al centro delle vicende dell’arte contemporanea italiana, della realizzazione di una rivista-catalogo delle mostre che lì si svolgevano (La Tradizione del Nuovo). Si trattava di mostre tematiche affidate a quei curatori che sono diventati i grandi di oggi, Germano Celant, Achille Bonito Oliva, Francesca Alinovi, Renato Barilli. La mia formazione è stata questa, fatta sul campo. Poi negli anni successivi ho conosciuto Alvaro Becattini, che aveva una piccola casa editrice, la Exit, che  è stato a tutti gli effetti il mio maestro, insegnandomi il mestiere di progettare libri e soprattutto a rispettare  il lavoro degli artisti.

Come è nata l’idea di fondare una casa editrice?

Fondare una casa editrice, anche se non di arte, era quello che sognavo da ragazzo, quando ho capito che non sarei riuscito a diventare uno scrittore, un poeta … che era quello che avrei desiderato fare ‘da grande’. Non so se fare l’editore sia stata una scelta di ripiego; visto a posteriori penso che sarei stato un mediocre se non pessimo scrittore, mentre come editore ho una personalità definita, e di questo sono assolutamente contento. La scelta di diventare editore d’arte contemporanea è stata invece un percorso maturato nel tempo. La prima mostra che mi influenzò veramente  fu quella di Francis Bacon a Berlino, dove mi fermai durante un viaggio in autostop. Grazie a quella mostra iniziai a guardare le cose in modo diverso, e capii che l’arte contemporanea era quello che mi piaceva; arte contemporanea e basta, perché il resto ancora oggi non mi interessa, infatti ho una competenza assolutamente settoriale: credo di sapere abbastanza dell’arte degli anni ’70, in particolare, e fino ad oggi, con alcune difficoltà a seguire gli sviluppi più recenti. Lavoro anche con giovani artisti, ma mi rendo conto che è cambiato qualcosa; all’epoca in cui ho iniziato, i ‘giovani artisti’ con cui lavoravo, Boetti, Paolini, Schifano, non dico che fossero popolari, ma di certo erano conosciuti. Ad esempio, se fermavi una persona che si occupava vagamente di arti visive, un arredatore, un architetto, ma anche un avvocato, e gli chiedevi se conosceva Boetti, magari non rispondeva  esattamente a tono, ma lo sapeva inquadrare. Oggi chiedi se chiedi chi è Francesco Arena, neppure tutti gli addetti ai lavori sanno rispondere.

Oggi la comunicazione è amplificata, ma il messaggio è meno potente, si sgretola. Come mai?

Intanto perché gli artisti erano molti di meno; e vorrei dire, anche se mi rendo conto che arrivati alla mia età il rischio di essere nostalgici è forte, che gli artisti di allora erano molto più bravi. Boetti, Manzoni, Fontana e Schifano rimarranno nella storia dell’arte del ‘900. Non voglio essere assolutista, ma per chi fa l’artista oggi la conquista del successo e della notorietà è più importante che lo sviluppo della ricerca personale. La prima cosa che fa un artista è cercare di avere una galleria che gli faccia mercato. Le opere costano delle cifre assurde, e questo spesso si tramuta nel fatto che non ne vendano neanche una. Il mondo dell’arte oggi è pieno di piccoli speculatori, che non sono neanche interessati ai lavori, ma ad individuare potenziali investimenti. Non mi riferisco a persone che possiedono reali competenze, collezionisti o galleristi che si interessano a dei giovani per vederne crescere il lavoro, ma ad un vasto sottobosco di personaggi che ha solo interessi speculativi. Questo  è un fenomeno che in una certa misura è sempre esistito, non è che attorno a Schifano girassero degli angeli o dei santi, anzi, però  si trovavano delle simpatiche canaglie che si interessavano al suo lavoro,cercavano in qualche modo di esserne partecipi.

Durante la sua intervista Guido Costa ha commentato che questa  speculazione esiste più nell’artista maturo, perché è un investimento certo, piuttosto che nei giovani, che rappresentano una scommessa.

A me capita di avere a che fare con collezionisti che sanno che ho rapporti diretti con gli artisti, e mi chiedono  se è possibile avere una loro opera ad un buon prezzo. Fa parte delle piccole furbizie umane.  Rispetto ai giovani è vero che ci sono delle difficoltà, un po’ perché sono tanti, e spazio per tutti non ce ne è, un po’ perché vengono spacciati come fenomeni internazionali alcuni che fuori dalla loro provincia nessuno sa chi siano, solo perché hanno fatto una mostra a Berlino. Un caso strano è quello di Luigi Ghirri, di cui oggi tutti vogliono le fotografie: anni fa non le comprava nessuno, seppure  il lavoro fosse già riconosciuto. Luigi è un’altra di quelle persone speciali che mi hanno aiutato a crescere sia nella professione che come  uomo, gli devo molto. Ad una Biennale di metà anni ‘90 Natalia Aspesi fece un appunto critico, e commentò:  questi ragazzi che piuttosto che andare a fare i camerieri al mare, hanno scelto di fare gli artisti. Quando lo lessi, mi diede un pochino fastidio, poi ho cominciato a guardare un po’ attorno, e ne vedo sempre di più! Questo va a discapito dell’arte stessa, perché se ne trova in giro di pessima.

Gli artisti emergenti sono talentati o soprattutto avvallati da questo  sistema fagocitante?

Entrambe le cose. Rispetto ai giovanissimi non sono molto preparato, ma mi pare ci siano dei fenomeni passeggeri; ad esempio qualche anno fa Patrick Tuttofuoco (magari tra un anno risalta fuori più vivo che mai, glielo auguro) sembrava dovesse incendiare le praterie, adesso non se ne sente neanche più parlare, e così vale per tanti altri. Poi il talento c’è: Pessoli e Marisaldi sono emersi per quello, anche se hanno ancora delle difficoltà di mercato. Altri fenomeni penso mischino le due cose: Cattelan, che a mio avviso unisce una buona dose di talento con una certa dose di furbizia, è veramente uno  di quelli che se non avesse fatto l’artista avrebbe dovuto fare il cameriere, ma non credo che abbia mai avuto dubbi. Attorno al suo lavoro sono poi confluite una serie di forze positive, l’interesse compatto e interrelativo fra galleria, critico d’arte, direttore di musei e case d’asta. Per cui è stato un po’ la tempesta perfetta.

Un artista designato a diventare grande dai professionisti del mondo dell’arte.

In questo in effetti non c’è nulla di nuovo, il fatto è che noi tendiamo a dimenticare. Penso al lavoro di De Dominicis che, secondo me, e con questo secondo me sono cosciente del limite della mia esperienza conoscitiva, è decisamente superiore a quello di Cattelan, sia come pensiero, sia come realizzazione. Se uno conosce De Dominicis, sa che Cattelan, come lui stesso riconosce, qualche debito ce l’ha, ma ha il merito di avere proposto un lavoro nei tempi giusti, perché gli anni ’90 sono stati molto ricettivi per la sua opera, cosa che non sarebbero stati gli ’80.

Oltre ad inserirsi perfettamente in questa congiuntura, è stato anche uno che ha saputo  intuire quale era il desiderio del tempo; quindi c’è anche una dose di talento non indifferente.

Il lavoro di Cattelan è composto da talento ed intelligenza;  se ho da fare delle critiche non le muovo a lui, che ha svolto perfettamente quello che era il suo ruolo. La critica è al mondo dell’arte e alla società, non a Maurizio.

Simone Menegoi ha dichiarato che ha dovuto decidere con grande dispiacere di non scrivere più per le riviste d’arte, in quanto a nessuno, fra quelli che ne pubblicano, interessa una lettura seria ed approfondita del panorama artistico nazionale ed internazionale. E’ un parere condivisibile?

Ho smesso da molti anni di leggere le riviste di arte  contemporanea, dopo averlo fatto per lungo tempo. Mi sono formato, cosciente della mia ignoranza, su Flash Art e, prima ancora, su riviste più di nicchia, di qualità, come ad esempio Data. Ho smesso di comprarle perché ho visto come funzionavano; purtroppo è così, come dice Menegoi. Capita che ogni tanto ci sia un numero con un articolo interessante, ma per trovarlo ti devi subire un mare di paccottiglia .

Ho letto che hai pubblicato il primo libro di Maurizio Cattelan. Racconta questa storia.

Ho conosciuto Maurizio Cattelan nell’ ’87, me lo presentò Patrizia Giambi, un’artista di Forlì, all’epoca la sua fidanzata. Patrizia è un artista molto interessante, donna intelligente, e devo dire che il suo  lavoro mi interessava di più di quello di Cattelan, però lui aveva una forza dirompente che lei non aveva: Maurizio, e l’ho capito dalla prima volta che l’ho visto,  è uno disposto a mangiare anche la corda . All’epoca faceva un lavoro non ben definito, più che altro il lavoro era lui stesso. Attorno alla mia casa editrice e alla mia galleria allora gravitava una fauna strana; era un posto sempre aperto, dal mattino alla sera tardi, e entrava di tutto, artisti, ma anche perditempo, sbandati. Io avevo più energia di quanta non ne abbia oggi, e mi divertiva questo mondo assurdo che mi girava intorno. Fra i personaggi strani, uno era Maurizio. Vestiva in modo improbabile, calzoni corti, sandali mezzi rotti ai piedi, camicie un po’ ‘slandronate’. Aveva sempre una gran fame, e qui c’era qualcuno che lo ospitava, il pranzo o la cena erano assicurati. Veniva spesso in bici da Forlì. Era un personaggio molto divertente, a volte addirittura troppo, quasi invadente. Ricordo che spesso avevo da fare e lo cacciavo via, come si fa con i bambini, però lavoravamo anche insieme ed era un piacere: molti dei progetti che lui ha fatto in quegli anni risentono dell’influsso  del circolo di persone  che transitava in questo posto. Facemmo la sua prima mostra in uno  spazio pubblico, la Pinacoteca Comunale di Ravenna, il direttore di allora faceva parte di questa banda di scriteriati (me compreso ovviamente). La sua prima mostra fu semplicemente un certificato medico  affisso alla porta del museo. In quell’anno uscì il libro “Biologia delle passioni”, che raccoglieva i suoi  primi lavori. Successivamente andò a Milano… anzi, prima gli prestai la bicicletta: avevo una bicicletta da corsa, una Legnano, e lui fece una sorta di mini giro d’Italia  in bicicletta, per caricarsi. Tornò, abbandonò Forlì, abbandonò anche Ravenna e se ne andò a Milano. Maurizio è una persona di cui ho un ricordo affettuosamente positivo; lo considero uno degli incontri felici della mia vita, anche se…

Come ti trovi nelle fiere?

Ho un’esperienza limitata a 4 – 5 fiere, delle quali ci si lamenta sempre, perché è un po’ il mercato delle vacche. Però al momento non sono sostituibili da altro. Nelle grandi fiere sai che sei nel pieno della speculazione, non sempre c’è la qualità, anche se secondo me Artissima è superiore, forse la fiera italiana di stampo più europeo, mentre le altre sembrano più sagre paesane. Devo dire che però per l’editoria sono fondamentali, e in genere le sezioni editoria sono la parte migliore di queste fiere. Diversa è l’esperienza all’estero, c’è una cultura del collezionismo che noi non abbiamo ancora.

Definiscimi ‘libro d’artista’.

Non è così semplice, però ci provo. E’ il lavoro dell’artista, in edizione limitata, numerata e firmata, che in Italia generalmente sta fra le 100 e le 200 copie, con alcuni casi eccezionali, fino a 500 copie. Viene prodotto con materiali che non necessariamente sono carta, dal vetro al plexiglass, che però sono sempre rappresentativi della poetica dell’artista. Ad esempio i libri d’artista di Paolini sono su carta, perché la sua opera è quasi sempre su carta, quindi nel suo caso le due cose si fondono perfettamente. Il discrimine è il fatto che nel libro d’artista tu devi riconoscere il lavoro, non è il catalogo che rappresenta il lavoro, è il lavoro stesso sotto forma di libro.

E’ più difficile fare dell’editoria di qualità oggi?

No, perché oggi c’è finalmente un interesse, e anche un piccolo mercato, sebbene inferiore a quello di altri Paesi. C’è un interesse diverso, quasi spasmodico per i lavori fatti negli anni ‘70, che oggi costano anche cifre considerevoli, sul libro d’artista fatto oggi vale il discorso fatto prima, nel senso che il libro d’artista di un giovane anche se realizzato molto bene non è che lo vendi come il pane. I  libri d’artista sono le cose che negli  ultimi anni faccio sempre più spesso, perché mi consentono di mettere a frutto una competenza che ho maturato negli anni precedenti. Ho lavorato con gli artisti per anni, e sono diventato loro amico: Schifano, Boetti, Paolini, Mattiacci …. Facevo il bagnino e mi sono trovato a frequentare persone straordinarie, che mi affascinavano, godere della loro amicizia è una cosa che mi ha riempito la vita. Ora, dopo tanti anni, alcune cose viste, dette e sentite allora tornano: forse all’epoca non le capivo, ma ora le riverso nei lavori che faccio oggi.

In che rapporto sei con gli artisti mentre producete questi lavori? Come collaborate?

L’idea di partenza è dell’artista, che si presenta da me con il suo lavoro; poi  valuto se può essere un libro, ma succede sempre meno, o un libro d’artista. Ultimamente consiglio ai giovani di fare un libro d’artista, perché è un po’ più facile da gestire, ed ha anche più possibilità di essere venduto, seppure con i limiti di cui parlavo prima.

Quale è il criterio con cui valuti la proposta di un esordiente?

Un punto fondamentale è questo: siccome fare un libro vuol dire passare una fetta più o meno lunga della propria vita con l’autore, la prima cosa che valuto è se mi piace o meno come persona. Dopodiché, si tratta di capire se è un lavoro che può fare per me. Di solito chi arriva qui sa dove va a cadere, raramente mi capitano cose che proprio non mi interessano, generalmente vengono persone che fanno cose nelle mie corde.

Come è strutturata  la tua casa editrice.

Negli anni d’oro avevo una casa editrice strutturata: io, due grafici, due segretarie… per un totale di 7 o 8 persone. Quella situazione per me era ingestibile, in quanto dovevo applicare alla mia casa editrice delle logiche aziendali, che impongono di aumentare il fatturato di anno in anno. Facevamo 50 titoli all’anno, che sono tantissimi, e avevo un giro d’affari notevole. Oggi invece lavoro sostanzialmente da solo, non ho più la necessità di dover crescere continuamente, e anche se l’andamento è altalenante non rappresenta un problema.

Avere più titoli, inficiava la qualità?

Non necessariamente, ma dava difficoltà per gestirli. I lavori possono anche essere tutti ottimi,  ma se in un mese escono 4 libri, uno alla settimana, anche solamente organizzare la presentazione diventa un problema.

Il tuo ‘sogno da editore’?

Non c’è un libro che vorrei fare, perché penso di avere già avuto questo genere di soddisfazione. Un possibile obiettivo potrebbe essere dedicarmi ad un lavoro con Maurizio Catellan, per chiudere un percorso che si è interrotto, ma la vedo difficile. Un sogno sarebbe quello di riuscire a mettere ordine. Una delle cose che mi tormenta di più ultimamente è il disordine; a volte mi sveglio anche di notte perché mi viene in mente una cosa che so di avere, ma che cerco e non trovo. Ad esempio, ho delle foto mie e di Luigi Ghirri insieme: le ho tenute per 30 anni dentro ad un contenitore, ma qualche tempo fa, per una ragione stupida, perché a volte succede che sai che stai per fare una cazzata, ma la fai lo stesso, ho preso queste fotografie e le ho spostate, e adesso non le trovo più. Sicuramente sono dentro il mio studio, dove però convivono migliaia di cose. Un giorno, cercando qualcos’altro, le ritroverò.

Un aneddoto curioso che puoi raccontare?

Per Mario Schifano curai (come editore si intende, l’autore era Marco Meneguzzo) il  suo primo libro antologico in occasione  della sua mostra a Ravenna. Il mio merito fu solo di essere lì, ma nacque un buon rapporto, anche se Schifano era un personaggio strano perché, come è noto, era dedito  a vari tipi di stupefacenti, ed era spesso alterato in un modo o nell’altro, a seconda di quale sostanza  avesse assunto. Il libro andò esaurito. Anni dopo mi proposi di realizzare una nuova edizione aggiornata,  per cui mi servivano  dieci  fotografie dei suoi ultimi lavori, semplicemente. Lo chiamai, gli spiegai cosa avevo in mente, e andai a trovarlo nel suo studio a Roma. Era un grande magazzino, al piano terra c’erano  20 o 30 tele in lavorazione contemporaneamente, alle quali si dedicavano i suoi assistenti; lui passava ogni tanto a mettere un segno e dare indicazioni. Ricordo che c’era una specie di salottino rialzato, dei  divanetti, televisori un po’ dappertutto, perennemente accesi, e un tavolino su cui erano appoggiate sostanze di vari  tipi … come io ho i cioccolatini, lui aveva queste cose. Quando mi accolse capii che era alterato; mi chiese cosa volessi, e gli spiegai del libro. Chiese quanti soldi avrebbe guadagnato e io, che non avevo intenzione di dargli niente, gli proposi comunque la metà del possibile  ricavato, circa 5 milioni di lire. Ebbe uno scatto d’ira, perché per lui quei soldi erano davvero pochi. Rimasi ancora, ed iniziammo a parlare di varie amenità. Dopo un po’ riprese il discorso, e mi chiese quanti soldi volessi. Non sapevo cosa rispondere, perché poco prima mi aveva chiesto quanti ne avrebbe guadagnati, ma lo assecondai, e dissi che mi servivano 30 milioni. Mi rispose che me ne avrebbe dati 300, e mi porse una busta di plastica che conteneva una quantità incredibile di soldi. Aveva un rapporto strano con il denaro, non sapeva bene quanto ne aveva. Avrei potuto prendere quella busta ed andarmene, un altro forse  si sarebbe comportato così. Invece io sono crollato psicologicamente, troppo per me, l’ho abbracciato e me ne sono andato.

E la seconda edizione?

… non l’ho mai fatta.

Claudia Santeroni

 

http://www.danilomontanari.com/

Immagine © Danilo Montanari

 

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