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Michela Pandolfi. Intervista

Prima scultura all’accademia di Firenze poi fotografia alla Bauer di Milano, c’è un collegamento?

Mah, tra i due “pezzetti” di percorso è trascorso molto tempo…  Se dovessi cercare un collegamento, potrei dire che entrambi erano tentativi di ricerca per poter interpretare la realtà. La scultura, come la fotografia, è semplicemente un mezzo attraverso il quale sperimentare. Ma se prima, con la materia, lavoravo direttamente alla manipolazione del soggetto, passando attraverso la perdita di questo soggetto sono arrivata alla fotografia, per elaborare la memoria del reale smarrito. Credo di aver voluto mantenere un rapporto fisico con le mie immagini. In tutti i miei lavori e le mie ricerche considero la fotografia come una porzione della tangibilità che mi circonda, anziché come la rappresentazione bidimensionale della realtà. Per questo mi piace giocare molto sul confine della distinzione tra realtà e rappresentazione.

L’attività didattica per il Museo di Fotografia Contemporanea ha inciso nel tuo “pensare” la fotografia?

I bambini sono totalmente liberi da sovrastrutture estetiche, compositive o tecniche, non sono ancora stati contaminati dalla sacralità della fotografia. Quando li accompagno alle visite guidate con le quali visitano le mostre allestite, o li seguo nei laboratori che di volta in volta proponiamo, sento le loro osservazioni e le loro domande, come interpretano quel che vedono e cosa trasmette loro: non si lasciano influenzare dal nome dell’autore, perché per loro è un completo sconosciuto, e osservano ogni immagine con genuina curiosità, rivelando un’attenzione profonda non solo verso il contenuto, ma anche verso l’intenzione dell’autore. Il lavoro didattico è un lavoro a “doppio senso”, in cui tutti ricevono qualcosa di prezioso. Credo che avere a che fare coi bambini mi abbia aiutato, se non nel “pensare” la fotografia, sicuramente nel trovare spunti diversi per rappresentare le mie idee e farmi contaminare da altre tecniche, come il collage che sto utilizzando proprio adesso in un progetto.

Il tuo lavoro “Who. Where.” è stato selezionato insieme ad altri lavori di giovani autori europei per la mostra e il catalogo del Vattenfall Fotopreis di Berlino nel 2012. Pensi che la ricerca fotografica fatta in Italia sia in “difetto” rispetto al panorama internazionale?

Più che la ricerca, credo che, in “difetto”, sia il sostegno fornito a chi fa ricerca fotografica. Fare davvero ricerca necessita tempo, studio, coerenza, costanza, impegno. Non bisogna dar troppo retta a cosa dice il mercato, bisogna andare in una direzione interessante per chi la prende, perché fare ricerca è una necessità. Chi fa ricerca deve essere incoraggiato e supportato da enti, istituzioni, musei, perché altrimenti diventa appannaggio di pochi e perché si rischia di arenarsi nelle sabbie dei cliché che abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti, cercando una sicurezza su strade già percorse.

Come nasce un tuo progetto, come procede e quali sono le linee teoriche che lo sostengono?

E’ difficile trovare una linea guida che vada bene per tutti i miei progetti, perché ogni volta il processo è differente. Ho avuto gestazioni di idee molto lunghe e altre brevissime. Mi è capitato di studiare a tavolino un’idea che mi era venuta sull’importanza dell’autorialità, volevo metterla in discussione, volevo qualcosa che potesse essere uno spunto di riflessione, per me prima di tutto oltre che per gli altri: avevo letto “La camera chiara” di Barthes e mi aveva affascinato terribilmente, avevo questo chiodo fisso della fotografia e del suo referente e pensavo “ecco, questo devo dire, questo devo fare!”. Alla fine nel giro di pochi giorni ho progettato e cominciato “Who. Where.”, che poi è andato avanti a lungo perché la realizzazione degli scatti richiedeva molto lavoro. E’ cominciato quasi per gioco, avevo pensato di fare questi fotomontaggi mescolando scatti miei e di Erwin Olaf ed ero contenta perché mi sembrava di aver centrato l’idea che mi era venuta. Per 2 anni il progetto è rimasto in un cassetto, l’avevo fatto e questo mi bastava. Quando poi l’ho tirato fuori e ho cominciato a notare l’interesse che suscitava sono rimasta sorpresa, perché ho sempre lavorato spinta da un interesse personale e il fatto che potesse incontrare l’approvazione di altri “addetti ai lavori” mi ha meravigliata.

Altre volte ho idee a cui penso per anni, in continua evoluzione ma che non riesco a cominciare. Adesso, invece, ho cominciato un progetto che ho pensato solo qualche giorno fa: sto lavorando con il collage e realizzo dei fotomontaggi in maniera più tradizionale. L’idea è ancora fondere autori, realtà, personaggi diversi e istanti lontani tra loro nel tempo. Mi è venuto in mente riguardando vecchie foto di famiglia, cosa che mi capita spesso: ho sempre avvertito una certa mancanza, la sensazione di essere nata relativamente tardi nella mia famiglia. Questo progetto è una sorta di mediazione tra un tema che mi è caro personalmente e uno che mi è caro nell’ambito della ricerca fotografica.

Trovi corrispondenze con altri autori contemporanei o del passato?

Ci sono dei lavori che mi hanno colpito tantissimo e che hanno influenzato la mia produzione, spesso però mi rimangono in mente le singole immagini o i progetti, piuttosto che gli autori di cui magari non ho apprezzato tutta la produzione. Posso comunque nominare senza alcun dubbio Georges Rousse, David Hockney con i suoi meravigliosi collages e Noemie Goudal con, in particolare, il lavoro “Island”.

Tre parole chiave per definire la fotografia contemporanea

Reale. Illusoria. Virtuale.

 

Immagini © Michela Pandolfi

http://www.michelapandolfi.com/

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