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Simone Menegoi. Intervista di Claudia Santeroni

Una foto scattata da me?
Ne ho fatte pochissime in vita mia, non ho mai avuto una macchina fotografica. Ma ora, con gli smartphones…
Ti allego un’immagine che mi piace, catturata in India l’anno passato.

 

Raccontami qual è stato il tuo percorso di studi, a cominciare da quando lo ritieni importante rispetto a quanto fai oggi.

Vale la pena nominare l’iter di studi in Filosofia Estetica, a Bologna. Considero la tesi che ho svolto allora qualificante per il mio percorso, anche se è stata scritta non su un artista, ma su uno scrittore, Marcel Proust. La tesi toccava dei temi  che rimangono per me interessanti, in linea generale. A posteriori, quello che mi interessava era il modo in cui un’opera d’arte ‘sopporta il peso della propria epoca’ – espressione non mia, ma che mi piace molto – , senza per questo rinunciare, neanche in minima parte, alle proprie leggi interne, alla propria organizzazione e autonomia di oggetto d’arte. La Recherche di Proust è un romanzo enorme, di oltre 3.000 pagine, di un’incredibile complessità teoretica e unità di temi che riguardano, fra l’altro, la natura dell’opera d’arte, ma è anche uno straordinario documento della sua epoca e un’opera che ha saputo ‘sopportarne il peso’, appunto. Dopodiché ho fatto il Corso di Comunicazione delle Arti Visive, a Brera, e ne sono stato largamente insoddisfatto, anche se ha avuto il merito di portarmi a Milano e di introdurmi, pur fra mille delusioni, nel mondo dell’Arte Contemporanea, dal quale non sono più uscito.

All’epoca in cui scrivevi la tesi, cosa ti affascinava di Proust?

Non solo una, ma tante cose. In primo luogo il fatto che nel suo romanzo non c’è un’estetica, ma una metafisica dell’arte. In un’opera in cui le convinzioni di fondo spesso sembrano essere materialiste, i momenti di più indiscutibile tensione metafisica, in cui cioè Proust apre la porta alla possibilità dell’esistenza di una sostanza spirituale, sono i momenti in cui parla dell’arte; solo all’arte è affidata la missione di testimoniare la trascendenza. In un passo molto famoso, quello della morte di Bergotte, personaggio che nella Recherche rappresenta la letteratura, Proust racconta come quest’uomo, che è gravemente malato, rischi la propria vita per vedere un’opera d’arte che adora, la ‘Veduta di Delft’ di Vermeer, e infine la perda, perché è vittima di un colpo mentre sta visitando la mostra in cui l’opera è esposta; e conclude che, forse, è valsa la pena di morire a quel modo. La dedizione che gli artisti riservano alle loro opere, e che splende in esse, sembra provenire da un mondo che non è il nostro; se l’opera è davvero manifestazione di questo mondo altro, allora l’artista gli appartiene, e non muore, come non moriamo noi che partecipiamo alla vita delle opere, e siamo in grado di coglierne la scintilla. Su questa tenue ipotesi, su questa speranza quasi assurda, si fonda tutto l’edificio della metafisica proustiana. Grazie a questo libro anch’io, in un certo senso – certo meno drammatico di quello di Bergotte – mi sono giocato la vita sull’arte. E neanche io, per il momento, sono pentito.

Qual’é la tua ‘Veduta di Delft’?

Questa è una domanda pazzesca! Non ho dubbi nel dire che ho provato sensazioni del genere per Caravaggio, in particolare davanti alla ‘Conversione di San Paolo’. Se parliamo di opere del Novecento, mi ha dato sensazioni simili Rothko.

Un autore vivente?

Il primo artista che mi ha fatto davvero amare l’arte dagli anni ‘60 in poi, il primo autore  di quel periodo di cui abbia riconosciuto istintivamente la grandezza, è stato Kounellis.

Oltre  a Proust, una figura che ha intellettualmente influenzato il tuo percorso.

Penso che le influenze veramente formative arrivino fatalmente prima dei 25 anni. A costo di sembrare monocorde, posso dire che  per me rimane un punto di riferimento il saggio di Gilles Deleuze su Marcel Proust e i segni: ha avuto un’influenza enorme. Al di là dei contenuti, che sono comunque straordinari, è il modo, la forma, il livello; il fatto che questo filosofo affronti la complessità dell’opera di Proust con un saggio di circa 150 pagine, e che lo attraversi da parte a parte come una lama, in modo tale che, leggendo il suo saggio, si afferra la spina dorsale teoretica del libro di Proust; ecco questa per me è stata una lezione indimenticabile. Quello è il mio  riferimento, il livello a cui aspiro e che non posso raggiungere, perché  non ho davvero i mezzi per librarmi a quell’altezza. Sapere che è lì che bisogna tendere, questo è stato per me importante.

Ad un certo punto  ti sei dedicato al giornalismo. Cosa ti ha indotto a preferire l’attività  di critico-curatore piuttosto che quella di giornalista?

La frustrazione. La frustrazione di un modo di fare il giornalista d’arte contemporanea che in Italia è piuttosto triste. Mi sono imbarcato nel giornalismo perché volevo scrivere di arte con indipendenza, senza avere il coinvolgimento con la materia che ha chi fa il curatore. I rapporti di collaborazione professionale con artisti, gallerie e musei possono offuscare il giudizio, o impedire di esprimerlo con franchezza. (E in Italia è spesso esattamente così). Io volevo essere un critico indipendente, e mi sembrava che scrivere soltanto, non avere un  coinvolgimento attivo come curatore, fosse la cosa migliore; e meglio ancora, mi dicevo, se si scrive per la stampa non specializzata, che non conta fra i suoi inserzionisti i galleristi, e solo in misura modesta i musei. Ho scritto per due anni per il Corriere della Sera. A poco a poco mi è nata l’idea di cercare di diventare l’equivalente italiano di personaggi stranieri che ammiravo, come certi giornalisti anglosassoni che hanno da un lato una grande competenza sullo specifico, cioè sull’arte contemporanea, e dall’altro erano capaci di parlarne in termini che possono interessare un pubblico più ampio di quello degli addetti ai lavori. Mi sembrava un compito bellissimo, e mi chiedevo come mai di figure così, in Italia, ce ne fossero pochissime (all’epoca, Angela Vettese, Marco Meneguzzo e pochi altri). Al termine di un percorso di più di cinque anni, mi sono accorto che c’è un motivo preciso per cui queste figure sono pochissime: perché c’è pochissimo interesse nei loro confronti da parte degli stessi che dovrebbero incoraggiarne l’esistenza, ovvero i direttori e caporedattori dei giornali. A costoro l’arte contemporanea interessa solo quando offre l’opportunità di montare lo scaldaletto di turno: Cattelan che fa l’opera così, Vanessa Beecroft che spoglia le donne… Quando mi sono reso conto della situazione ho pensato  di dare retta  agli amici artisti che da anni mi  dicevano ‘fai il curatore, fai le mostre che vorresti vedere e che non riesci a trovare’.

Qual’é stata la tua consacrazione come curatore, che ti ha premesso di iniziare a percepirti come tale?

La prima mostra di grandi dimensioni che organizzai, Light Sculpture, che si fece a Vicenza nel 2005.

A tuo avviso, come si colloca la fotografia nel panorama artistico contemporaneo?

La fotografia è proteiforme, tende a qualunque contaminazione possibile immaginabile, è onnipresente. Tutto diventa molto ibrido: è ancora fotografo, per  esempio, Thomas Ruff quando fa  le sue astrazioni digitali? La fotografia è una disciplina ancora estremamente vitale, purché sia fatta  con la consapevolezza di cosa significhi oggi, con un pensiero rispetto alla natura del medium, alla sua mancanza  di definizione, ai suoi orizzonti aperti, e proprio per questo difficili da gestire. E comunque penso che ci siano ancora molte cose straordinarie che si possono fare con la fotografia nella sua forma più classica, sotto forma di stampa appesa al muro.

Roberta Valtorta ha detto che secondo lei oggi non c’è più possibilità di coalizione di intenti, ma possono esistere solo esponenti singoli che portino avanti una loro lettura personale dell’arte. Luca Panaro ha sostenuto che i giovani fotografi devono ancora ‘elaborare il lutto di Ghirri’. Guido Costa  ha dichiarato il panorama è interessante e fertile, ma ostacolato dalle istituzioni che vogliono incanalare le poetiche, le visioni e le letture verso un’arte  che sia scioccante. Vaccari è annoiato dal panorama artistico contemporaneo.

Sulle tendenze della fotografia non mi sbilancio, perché non ne ho una conoscenza abbastanza capillare. Per quanto riguarda le arti visive, riconosco delle macrotendenze, senz’altro. Bisogna dire che è più facile riconoscerle qualche anno dopo il loro manifestarsi, quando  si sono cristallizzate.

Torna giornalista per un attimo: vivo o morto, a chi ti piacerebbe fare un’intervista e, se hai qualcuno,  cosa ti piacerebbe domandargli in particolare.

L’intervista dei sogni? Al grande artista austriaco Walter Pichler (1936-2012). Lo ammiro molto, avrei voluto conoscerlo. Dopo vari tentativi andati a vuoto, ero riuscito a parlare con lui al telefono un paio di volte nell’autunno del 2011. Dovevamo vederci di lì a poco, poi la sua salute cominciò a peggiorare… E’ morto nel luglio dell’anno scorso, senza che potessi stringergli la mano.
Avrei voluto chiedergli molte cose. Prima fra tutte, forse, la sua definizione di “scultura” e di “architettura”, le discipline che frequentava di più.

Il compito degli artisti di oggi, è il medesimo che erano chiamati ad assolvere secoli fa?

La percezione del proprio ruolo e della propria identità, da parte degli artisti, e la percezione del loro ruolo e della loro identità dalla parte della società circostante è cambiata così tanto nel corso  dei secoli, e in modo così radicale, che secondo me è onesto e culturalmente rigoroso  dirti che è difficile rispondere. Non voglio appiattire la conversazione dicendo le motivazioni sono sempre le stesse, affermando che c’è un afflato, perché sarebbe riduttivo.

Quale è il tuo sogno riferito all’arte?

To Be With Art is All We Ask (Gilbert and George, 1970)

Claudia Santeroni

 

Immagine © Simone Menegoi

 

1 commento »

  1. beh, provo un certo sollievo nel leggere un’intervista ad uno dei sedicenti “protagonisti dell’arte” e trovare dei contenuti, un racconto, piuttosto che (come spesso capita) una sterile analisi delle dinamiche mondane nel quale si è inseriti, che tradisce la convinzione che questo sia in fondo il vero succo del lavoro, piuttosto che lo scenario sociale che lo accompagna.
    se questo accadesse più spesso l’arte contemporanea, special modo quella italiana, potrebbe tarare nuovamente il proprio registro linguistico, finendo magari per risultare più interessante e accessibile anche agli occhi di chi la guarda come un mondo elitario e borghese al quale forse giustamente non si interessa.

    Comment di daniele il 22 April 2013 alle 17:52

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