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Luca Panaro. Intervista di Claudia Santeroni

Buongiorno Claudia,
in allegato un aspetto curioso osservato a Shanghai nel 2010.
Mi ha fatto subito pensare alla nota fotografia di John Graudenz:

http://www.ilpost.it/2012/06/01/foto-darchivio-4/summer-swanson
Saluti,
Luca

 

Quale è stato il suo iter di studi?

Ho studiato al Dams di Bologna, nella sezione arte che, riflettendoci oggi, a distanza di tempo, credo sia stata un’ottima scelta,  funzionale all’approccio che ho adottato in seguito, perché è uno di quei pochi luoghi di studio dove si può arrivare alla Fotografia partendo dall’arte contemporanea, vedendola quindi in maniera differente rispetto a chi invece cresce e vive nel mondo prettamente fotografico. Rileggendo il mio percorso, credo dunque di dovere molto del mio attuale modo di vedere la fotografia all’aria respirata in quel periodo.  

Quale è un pensiero o una teoria che l’ha affascinata e influenzata particolarmente?

A livello teorico la figura a cui mi sento più vicino è Franco Vaccari. Credo molto nel suo lavoro sia come artista, sia come intellettuale. Ritengo sia una delle figure più interessanti che abbiamo in Italia, già molto noto, anche se la sua ricerca artistica è ancora da esplorare pienamente. Il suo pensiero e le sue opere andrebbero fatte conoscere maggiormente all’estero, soprattutto negli Stati Uniti.

Un ricordo legato alla Fotografia?

Ho sempre avuto passione sia per l’immagine, sia per gli oggetti fotografici, però non come può avere un fotografo, nel senso che non mi ha mai più di tanto interessato la pratica, ma la Fotografia come strumento di riflessione, capace di farmi vedere le cose in modo diverso.

Prima Le ho chiesto di un pensiero o una teoria fotografica a Lei cara; se invece dovessimo pensare all’esterno del mondo della Fotografia, Le viene in mente una musica, un film, un libro che l’ha condizionata nella sua professione?

Questa è una di quelle domande destabilizzanti… in qualsiasi altro momento saprei rispondere, ma ora non viene in mente nulla! Sto pensando… sì, una lettura che ho fatto in tempi non sospetti, prima di interessarmi di Fotografia, che ho poi incontrato in un corso universitario e in seguito ho citato all’interno di alcuni miei scritti, è un romanzo di Pirandello, “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”. Invece, un film che mi ha molto colpito è stato “Il favoloso mondo di Amelie”, che penso riassuma le maggiori intuizioni concettuali fatte in Fotografia, raccontandole in modo simpatico, leggero, ma non banale. Ho anche una particolare passione per Paul Auster, autore del romanzo “Leviatano”, dove si parla di fotografia con riferimento all’artista Sophie Calle. Su di un racconto dello stesso Auster è basato anche il bellissimo film “Smoke”.

Qual è la sua visione del panorama fotografico italiano contemporaneo?

E’ una cosa che mi interessa molto. La Fotografia italiana ha delle grosse difficoltà ad affermarsi, soprattutto a livello internazionale, e le ragioni sono molteplici, una fra tutte emerge il fatto che nel passato non abbiamo avuto delle strutture, contrariamente ad altre nazioni: poche riviste, pochi musei, poco sostegno da parte delle istituzioni, situazione che sta timidamente cambiando negli ultimi anni, e questo lascia ben sperare. Chi guarda la Fotografia di una nazione sente spesso l’esigenza di identificarla in un genere. Quella italiana viene abitualmente associata alla ricognizione del territorio, linea fortemente sostenuta tutt’ora dalla critica, anche se io ritengo che oggi ci sia la necessità di cambiare sguardo, proponendo la nostra fotografia in maniera differente, senza cercare un altro genere in cui identificarsi, approccio ormai anacronistico, in quanto il mondo odierno va nella direzione della pluralità di espressioni. La cosiddetta nuova generazione, ascrivibile ai nati intorno agli anni ’60, possiede un ventaglio più vasto di possibilità per elaborare la contemporaneità, scardinando il legame ormai pluridecennale con il paesaggio e l’architettura. L’obiettivo dei critici più giovani, coetanei di questi autori, dovrebbe proprio essere quello di vedere come punto di forza e risorsa la molteplicità, piuttosto che cercare un unico genere da esportare.

Quindi secondo Lei quale è la linea critica preponderante in Italia?

Come ho detto la linea che va per la maggiore è questa: sostenere quegli autori che fanno ricognizioni territoriali-paesaggistiche di matrice ghirriana, a mio parere molto pericolosa perché rischia di generare dei cloni. Come d’altronde ha fatto. La cultura del passato va conosciuta ed assimilata, ma anche superata, per poter approdare ad una nuova Fotografia. Una frase che esprime bene questo concetto l’ho sentita dire qualche anno fa da una mia collega di Bologna: “è giunto il momento di elaborare il lutto di Ghirri”. Non mi fraintenda, non sto dicendo che Luigi Ghirri non sia stato importante, anzi, ma quella ricerca appartiene agli anni ’70 e ’80, ed il suo lavoro corrisponde ed interpreta quel periodo; noi siamo nel 2012 e abbiamo il dovere di fare altro, e la critica dovrebbe assecondare il rinnovamento, piuttosto che incanalare i giovani su una strada già battuta.

Se potesse parlare con un fotografo, a chi le piacerebbe fare una domanda? E quale?

Se posso puntare in alto, più che con un fotografo mi piacerebbe parlare con Duchamp o Warhol, due colonne portanti rispettivamente del primo e secondo ‘900. Duchamp perché ha destabilizzato la concezione classica dell’arte e Warhol perché ne ha portato avanti il percorso introducendo il dibattito sulle immagini ancora in corso. A Duchamp domanderei se gli oggetti da lui eletti ad opera d’arte fossero scelti da un repertorio visivo derivante dalle sue frequentazioni bibliografiche; a Warhol invece chiederei come mai non abbia pensato di insistere sull’intuizione avuta di invitare i suoi clienti ad auto-fotografarsi all’interno delle cabine per fototessere di New York.

Uno spunto di conversazione: ho visto di recente in una soap opera una scena curiosa, in cui una ragazza, presumibilmente abbandonata dal marito o dal fidanzato, infieriva sulla fotografia di loro due, disperandosi. Cosa le fa pensare questo atteggiamento di attaccamento all’immagine?

Secondo me è molto più appropriato che una cosa del genere si verifichi nel 2012, visto che siamo abituati a riversare sull’immagine tutta una serie di significati, spesso con grandi aspettative. Mi viene in mente un romanzo di Moravia intitolato “La vita interiore”, in cui le due protagoniste, madre e figlia, avevano questo rapporto molto particolare, morboso, e dialogavano attraverso delle polaroid, spesso scatenandosi sulle immagini come avrebbero voluto fare una con l’altra. Oggi per noi le fotografie non sono semplicemente un rettangolo visivo dal valore estetico, ma sono soprattutto uno strumento di relazione, come testimoniato dal successo di certi social network come Facebook o Instagram.

Ultimamente mi è capitato di leggere un commento ad una fotografia pubblicata in Facebook, che diceva: ‘complimenti, le tue non sono fotografie, ma dei quadri’. Ancora oggi esiste una propensione di massa a ritenere che il livello più alto dell’espressione artistica si associ all’abilità manuale? Cosa ne pensa?

Penso non sia corretto associare l’espressione artistica alla produzione di un manufatto. Da un certo punto di vista però capisco che nell’immaginario collettivo si possa pensarlo. Paradossalmente credo che anche questo genere di atteggiamento abbia più senso oggi, perché un tempo esisteva l’associazione quadro/fotografia in cui la Fotografia soccombeva, nel ‘900 abbiamo assistito invece ad un percorso di accettazione. Oggi tutti produciamo con facilità una quantità enorme di immagini, provocando quindi una progressiva perdita di valore. La gente pensa che l’unico modo per riscattare le immagini sia associarle a qualcosa che richieda competenze specifiche per essere creato, dunque si sente la necessità di impreziosire le fotografie. Come comportamento sociale lo giustifico, ma come atteggiamento artistico lo rifiuto.

Claudia Santeroni

http://www.lucapanaro.net

Immagine © Luca Panaro

4 commenti »

  1. come si dice: “ognuno tira l’acqua al suo mulino…”

    una volta ho sentito dire, da un autore che l’ha conosciuto bene, che, paradossalmente, ghirri ha ottenuto il successo maggiore con le cose “minori” (intendendo come cose migliori quelle prodotte negli anni 70).

    ora si comincia finalmente a rimediare (vedi mostra curata da Demand e tutto ciò che ne è seguito, fino alla riedizione di Kodachrome).

    certo non credo si possa negare che, negli anni ’90, abbia fatto comodo a molti portare avanti solo il discorso sul paesaggio…

    per rispondere a Panaro, dico che forse è giunto anche il momento per elaborare e lasciarsi alle spalle anche tutti gli altri… (Vaccari compreso, con tutto il rispetto).

    ;-)

    il problema non è la clonazione o piuttosto l’imitazione, secondo me passaggio assolutamente fondamentale soprattutto nel periodo della formazione di un autore
    (e qui lasciamo stare, perchè si aprirebbe la voragine sulle scuole italiane e di come la storia viene raccontata…)

    poi tutti dovrebbero, metaforicamente, “uccidere” i propri padri, dopo averli seguiti, imitati, ecc.

    se uno poi vuole perseverare, fatti suoi.

    il problema che, al momento, se si guardano gli autori usciti dalle varie “parrocchie” fotografiche italiane (ognuna facente capo ad un “guru” diverso), credo che non ci sia da stare tanto allegri…

    mi viene in mente qualcuno che una volta ha detto: “Ora vado a fare il guru!”

    e se questi non vogliono andarci, mandiamoceli noi…

    ;-)

    Comment di andrea botto il 5 November 2012 alle 11:36

  2. Lascerei ai posteri il compito di “elaborare il lutto di Ghirri”, trovo la cosa ancora troppo precoce viste, come viene giustamente fatto notare, le non indifferenti difficoltà della Fotografia italiana. Sono ben chiare a tutti le ragioni, e fa piacere che venga lanciato ancora una volta questo grido d’allarme.
    Per lo stesso motivo si può considerare la “tendenza della critica ad incanalare i giovani” credo sia l’ancora di salvataggio di questo che considero un lento ed inascoltato declino.
    La mia visione conservatrice e negativa va comunque valutata in un arco di tempo più dilatato e non in chiave contemporanea.
    L’intervista, oltre a quello preso in esame, offre diversi spunti meritevoli di un ulteriore approfondimento di cui la Fotografia necessita. Benfatto!!!

    Comment di R.Stramandinoli il 8 November 2012 alle 01:34

  3. Bella intervista! ricca di spunti e osservazioni interessanti..ed inoltre sono molto d’accordo con la risposta all’ultima domanda!

    Comment di matteo il 8 November 2012 alle 14:18

  4. Io penso invece che il pensiero di Ghirri sulla fotografia, al di là della fotografia di paesaggio e del territorio, ce lo dovremmo tenere bello stretto, visto il piattume odierno a cui si assiste. Condivido ovviamente il fatto di andare oltre l’imitazione di Ghirri, questo si. Il territorio si può raccontare in mille modi…

    “il problema che, al momento, se si guardano gli autori usciti dalle varie “parrocchie” fotografiche italiane (ognuna facente capo ad un “guru” diverso), credo che non ci sia da stare tanto allegri…”

    Quoto assolutamente questo passaggio del commento di Andrea Botto.

    Comment di Andrea il 9 November 2012 alle 22:22

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